Sandro Polo. Vogliamo parlare del Caffè Perù? I nuovi
titolari del locale ci hanno raccontato che hai diretto i lavori per quanto
riguarda gli interventi artistici.
Giancarlino Benedetti Corcos. Devo
dire che il vero artefice di questo progetto è stato Michele, il giovane figlio
dei vecchi proprietari. Da molto tempo volevano ristrutturare il pavimento
riportando in vista quello in graniglia degli anni ’50. Quando è cambiata la
conduzione mi ha presentato i nuovi gestori ai quali ho proposto alcune
soluzioni.
S.P. Entrando nel bar si nota sul pavimento una grande
onda marrone che si addentra nel locale.
G.B.C. Si, per quel
lavoro, mi sono ispirato alla tovaglia eucaristica che funge da balaustra della
cappella Spada di San Girolamo della Carità, una chiesa dell’Opus Dei non
lontana da qui. La cappella, attribuita al Borromini, è separata dalla navata da una
balaustra-scultura di Antonio Giorgetti, rappresentante il manto eucaristico,
in diaspro tenero di Sicilia rigato, disteso tra due angeli inginocchiati che,
nella sua aniconicità, unisce tutte le religioni.
Poiché non è facile
poter visitare quest’opera, ho voluto
portarla fuori da quel luogo chiuso, “trasferendola” su delle terrecotte
smaltate dipinte che ho inserito poi nel pavimento del Caffè Perù, rendendola
così bidimensionale e più povera. Mi piaceva l’idea di mettere in relazione,
far dialogare opere d’arte scarsamente fruibili con luoghi frequentati da un
pubblico numeroso ed eterogeneo come può essere quello di un bar.
S.P. Hai portato l’opera fuori da uno spazio chiuso per
“trasferirla” nello spazio della vita, un pavimento percorribile, dove la gente
la vive calpestandola, attraversandola, non solo osservandola. E’ stato questo
il primo pavimento che hai progettato?
G.B.C. No, il primo è
stato nel 2006, per la galleria d’arte 12/13 in via Garibaldi che ora purtroppo
ha chiuso. Poi ne ho fatto uno per il bar Le Teste Matte a via dei Baullari, si
intitolava Panta Rei. Era un’opera sullo scorrimento di un fiume, con figure di
animali. Per realizzarla mi sono ispirato all’Albero della Vita della
cattedrale di Otranto. In seguito questo pavimento è stato smontato e i pezzi
riassemblati in altre opere. Per una casa colonica a Talamone ho creato invece
il camminamento esterno intorno all’edificio.
S.P. Nasci come pittore, quando hai iniziato a lavorare
la ceramica?
G.B.C. Ho iniziato a
lavorare la ceramica per caso. La mia vita è sempre stata costellata da
casualità. E’ iniziato tutto da un’amica che mi ha chiesto di realizzare delle
mattonelle per la sua casa. Ne ho realizzate una serie con dei papaveri
dipinti. E’ curioso, lei di lavoro fa nascere i bambini, e in qualche modo è
stata la madrina di questo mio nuovo percorso che non considero affatto
antagonista alla pittura, anzi, ne è una naturale evoluzione.
S.P. E per quanto riguarda le sculture?
G.B.C. Le mie prime sculture sono state in legno, ma attualmente lavoro prevalentemente con la ceramica.
S.P. Tornando al bar Perù, come nascono gli altri
interventi sui pavimenti e sulle pareti?
G.B.C. Ho voluto far
lavorare degli artisti che trovavo sulla mia strada. Non ho fatto telefonate
per invitare qualcuno, la collaborazione è nata dalla casualità degli incontri.
Mi piaceva costruire una collaborazione con persone che vivevano nella zona e
che potessero lasciare la loro impronta.
Sono stati in molti a dare il loro
contributo: Giovanni di Carpegna, Hitnes, Maurizio Morellini, Luigi Scialanga, Silvia Codignola, Carlo Genesi, Adelaide Innocenti,
Asipjok, Giulia e Katerina Lusikova, Valentina Brandolini, Maru, Ciccio Bottai,
Hart and Sound, Fausto delle Chiaie, Clotilde Malatesta, Roberto er Pisello,
Roberto Filo della Torre, Morel, Simona Morgantini, Massimo di Clemente.
S.P. La prima parte di pavimento, caratterizzata, come
dicevamo, dal drappo di San Girolamo della Carità, è seguita da una seconda
parte, diversa, più luminosa.
G.B.C. Esatto, in questa
seconda parte è rappresentato l’Albero della Vita che si svolge lungo il
corridoio che porta ai bagni, anche quelli completamente decorati di ceramiche:
la toilette degli uomini sui toni del nero; quella delle donne sui toni
dell’azzurro. La cosa curiosa è che agli uomini piace di più quello azzurro e
alle donne quello nero.
In alcune
mattonelle ci sono i nomi delle persone che per dissapori con la vecchia
gestione erano state invitate a non frequentare più il bar, fra i quali io
stesso. Avendo avuto l’opportunità di rientrare nel locale in questa nuova
veste, li ho riportati nel Caffè citandone i nomi. E’, diciamo, una sorta di
riscatto verso le due gemelle che hanno gestito insieme al padre il bar dagli
anni ’30, gli eredi Canini, ai quali però devo molto.
S.P. E nella seconda stanza del locale?
G.B.C. L’ingresso
all’altra stanza è caratterizzato da quadrifogli beneauguranti, dalle poesie di
Laura Rosso, da alcuni suoi ritratti e dalle tartarughe che osservate sottosopra diventano delle tazzine da caffè.
Bere il caffè è un po’ come fermare il tempo per un attimo, da qui l’idea della
tartaruga, un animale proverbialmente
lento. Disseminate sulle mattonelle ci sono anche tante immagini legate al
vissuto quotidiano ma anche tanti interventi astratti. Quello che mi interessa
infatti è una figurazione che si riveli attraverso il segno astratto.
S.P. E poi ci sono i fiori.
G.B.C. Si, i papaveri che
sono i fiori della campagna romana e sono il simbolo della caducità: non fai in
tempo a vederli che già sono appassiti. E poi gli iris. Questi due fiori sono
un po’ la mia cifra. Il fiore come momento di estrema vitalità, anche se
transitoria, ci ricorda che il nostro tempo non è eterno, e quindi nella vita
dobbiamo fare. Questa cosa si ricollega anche ad un concetto molto bello della
cabala ebraica, e cioè che il cielo è in terra: le cose spirituali vanno viste
in ciò che è terreno, nella vita. E’ perciò nella vita che bisogna agire.
S.P. E’ un concetto che può essere collegato anche al
pavimento con il drappo eucaristico?
G.B.C. Si, il cielo in
terra, la scultura in terra, ma anche l’arte in terra, quell’arte che
normalmente è nei musei o nelle case di chi se la può permettere. Il fatto che
venga calpestata non la scredita affatto, perché il piede è una parte nobile
del corpo, quella che ci porta lontano e ci sostiene.
S.P. I tuoi segni-immagine, sono pensati, costruiti,
progettati oppure sono istintivi, immediati?
G.B.C. Direi istintivi. Se
si ha la fortuna di avere la mano strettamente legata all’inconscio, è un po’
come se si sognasse ad occhi aperti. Una
parte dell’artista sogna sempre ad occhi aperti.
Ti racconto un
episodio accaduto con una psicanalista junghiana: dopo che seppe che ero un
pittore, mi fece notare che avevo gli occhiali molto sporchi e mi disse: “ tu
dipingi anche se non vedi perché lavori con il preconscio”. Le risposi: “no,
con il precotto”.
G.B.C. Si, e c’è anche il
motto di spirito legato alla cultura romana con cui mi sto relazionando
tantissimo, infatti ho fatto anche una mostra su Gadda. Il pittore, l’artista,
deve saper giocare col linguaggio, deve saper inventare una lingua nuova.
S.P. Gli interventi tuoi e degli altri artisti sono
legati da un tuo progetto oppure ognuno ha dato il suo contributo liberamente?
G.B.C. No, non c’è un
tema. Ho voluto lasciare gli artisti liberi di esprimersi, perché credo che
l’artista debba parlare di sé, del proprio vissuto, del quotidiano e della
propria vita. Questo cantiere è stato possibile grazie al fatto che i
committenti hanno creduto in questo progetto, e ho avuto anche la fortuna di
collaborare con un architetto molto bravo, Bruno Battelli.
Intervista
di Sandro Polo
Foto
di Fabrizio Pietrini
Giancarlino
Benedetti Corcos
Studio: via dei
Cappellari 86, Roma
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e-mail:
giancarlincorcos@gmail.com