Quando la parola prende il sopravvento. Intervista con l'artista veneziano Luca Clabot


Ho appuntamento con Luca al “Rosso” in Campo Santa Margherita nel sestiere di Dorsoduro, teatro della vita crepuscolare e notturna veneziana. Il “Rosso” è uno dei numerosi bar e locali che si affacciano tutto intorno al Campo con i loro tavolini, punto d’osservazione privilegiato sul movimento che anima questa vivace fetta di città. Mi siedo ad aspettarlo davanti ad un bicchiere di prosecco e il suo leggero (e proverbiale) ritardo è poca cosa davanti alla bellezza di questo posto. Arriva un po’ trafelato con due libroni pieni dei suoi lavori e, per iniziare con stile, si autodefinisce così:
“Luca Clabot, cavallo di razza, è artista puledrico. Dotato indubbiamente di quel certo non so ché, risulta tuttavia privo del minimo di quel che si dice”.

Giulia Ripandelli. …………..

Luca Clabot. Questa definizione che ho inventato mi rappresenta tantissimo, è come dire il buono a nulla capace di tutto….


G.R. Va bene, ma cominciamo dall’inizio…. Luca Clabot artista veneziano, sei proprio veneziano doc?

L.C. Si, sono nato a Venezia all’Ospedale Fatebenefratelli di Cannaregio, ho trascorso i primi anni in Campo Bandiera e Moro, poi a San Pantalon, dopodichè la mia famiglia si è trasferita a Marghera. Ho ricominciato a venire a Venezia quando mi sono iscritto al liceo artistico, a quattordici anni. In seguito ho frequentato l’Accademia di Belle Arti, indirizzo pittura, con Emilio Vedova. Da allora è ridiventata la mia città; tutti i contatti e gli amici li ho qui, Marghera non offre molto, a parte una quarantina di km di bellissime piste ciclabili che frequento assiduamente.  


  G.R. Come è stata l’esperienza con Emilio Vedova?

L.C. I primi tre anni ero bloccato e mi sentivo totalmente spaesato, poi è arrivata una sorta di illuminazione e ho cominciato a produrre tantissimo. Facevo dei lavori gestuali, sull’onda di Vedova, eravamo tutti influenzati dalla sua grande personalità. Quando il direttore dell’Accademia li ha visti, mi ha scelto per rappresentare  l’istituto ad una mostra molto importante che si tenne nell’89 alla Galleria San Fedele di Milano. Fu un vero colpo di fortuna, perché vennero diversi collezionisti a cui piacque il lavoro e diventarono miei assidui compratori per quattro anni, finché, quando scoppiò tangentopoli, vennero tutti coinvolti e così questo capitolo, i soldi, la Milano da bere, ecc, si chiuse definitivamente. Questo succedeva nel ‘92.

G.R. Deve essere stato un momento difficile….

L.C. Esatto, ma non mi demoralizzai. Presi uno studio a Pordenone, in una ex corderia, e lì, in questo spazio deserto, desolato, per un anno ho disegnato tantissimo. Poi ho iniziato a fare dei grandi lavori
minimali, enormi strutture con pannelli di ferro, talvolta ossidati, con cui nel ’93 vinsi l’edizione del concorso Bevilacqua La Masa e lo stesso anno fui chiamato da Achille Bonito Oliva a partecipare alla Biennale di Venezia. Quello fu un anno clamoroso per quanto riguarda la mia piccola storia, fu un salto di qualità incredibile. Da lì iniziò un periodo esplosivo, con un’intensissima attività espositiva sia in Italia che all’estero, che durò fino al ’96 quando ad un certo punto entrai in crisi. All’epoca lavoravo col cartongesso, mi accorsi di non avere più alcun tipo di interesse in quel che facevo, così decisi di ritirarmi.


  G.R. Come e quando ti sei avvicinato alla parola e alla poesia?

L.C. La parola mi è sempre stata vicina, anche se rappresentava una parte marginale della mia espressione. Quando mi sono stancato di formalizzare perché sentivo di essere completamente inaridito, ha cominciato a diventare sempre più importante finché mi resi conto che le cose che avevo da dire funzionavano meglio scrivendo. Nel 2004 ho partecipato alla Biennale Teatro con il testo Kronos Gelato portato in scena da Nayra Gonzales, da lì è iniziata la risalita….

G.R. Ti sei ripresentato al pubblico in una nuova veste…

L.C. Si, quando esci dal mondo dell’arte perdi la credibilità ed è dura farsi riaccettare. Invece piano piano sono riuscito a riconquistare fiducia e stima, grazie anche alla Galleria Michela Rizzo che mi ha aiutato molto. Ho ricominciato ad avere nuove piccole soddisfazioni, anche se economicamente non era la stessa cosa di prima. L’aspetto concettuale della mia ricerca non aiutava: l’oggetto si vende, la parola no, la parola vola…


  G.R. Fai un uso della parola ampio e diversificato: fra i tuoi lavori ci sono poesie, calligrammi, come nel racconto in forma di clessidra, collages e appunti su taccuini Moleskine, titoli di giornali, estratti di elenchi telefonici, readings dal vivo… la parola gioca un ruolo essenziale anche quando è solo un titolo, come nel progetto fotografico “Mi bagno e cesso di esistere - Mimetismo igienico sanitario”…

L.C. Esatto, la cosa bella è che nella parola sono riuscito ad esternare il mio lato ironico che in passato non mostravo. Nei miei lavori mi espongo al cento per cento, non ho paura di questo, sento che mi rappresentano totalmente per come sono ora, anche se sono consapevole di raggiungere talvolta intuizioni abbastanza sofisticate, mentre altre volte rimango a livello di avanspettacolo o rivista degli anni ’30… Il progetto “Mi bagno e cesso di esistere” è nato per caso, mentre mi trovavo nel bagno del Blue Moon al lido. Mi sono visto allo specchio e mi sono scattato una foto. Quando poi l’ho stampata mi sono accorto che il giubbetto che indossavo aveva le stessa sfumatura marrone della porta, la camicia lo stesso blu delle pareti; è nata così una serie di autoscatti realizzati nei bagni di case private e di locali in cui mi mimetizzo con l’ambiente attraverso i colori dei vestiti. Ho esposto questo lavoro nel 2010 alla Galleria Michela Rizzo di Venezia in occasione della collettiva con Tony Cragg, Lawrence Carroll, Giovanni Rizzoli e David Rickard…



G.R. Che mi dici della mostra “Vi va l’Italia”?

L.C. Questo progetto è nato in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Avevo ricevuto una proposta per presentarlo al Vittoriale di Gardone Riviera ma purtroppo non andò in porto, così il lavoro è rimasto nel cassetto fino al gennaio del 2012, quando la Fondazione Bevilacqua La Masa si è interessata alla questione e ha organizzato la mostra al Palazzetto Tito, che era perfetto con i suoi interni classici ottocenteschi. Ormai era passato un anno e così le mie sono diventate le celebrazioni per il centocinquantunesimo anniversario dell’Unità d’Italia.

 
G.R. A cosa stai lavorando adesso? Hai dei progetti per il futuro?

L.C. Sto lavorando a diversi progetti: quello più importante, che vorrei esporre a novembre, sarà una grande scritta in metallo da applicare a parete che recita: “L’ERRORE STA NEL SUO ESATTO CONTRARIO”. Credo sia il mio lavoro più bello perché il fatto che l’ERRORE sia in un ESATTO contrario è già di per sé un ossimoro, ma è anche la verità, perché se leggi “ERRORE” al contrario viene fuori “ERORRE” che è veramente un errore.
Altri due progetti si basano invece su ritagli di giornale: nel primo sto raccogliendo titoli in cui la notizia drammatica, per una svista, viene messa in rima, ottenendo un effetto sdrammatizzante che diventa parodia… Il secondo è un tipo di indagine direi quasi archeologico: sto raccogliendo tutte le pubblicità che sono apparse sui giornali a grande diffusione dal 1914 al 2014 riguardanti il corpo oppure il cervello e la mente. Quindi, da una parte il mantenimento e l’estetica del corpo, la ricostruzione dovuta a guerre o alle variazioni del gusto, dall’altra i maghi, l’ipnotismo, il magnetismo, ecc. Quello che ne esce è che mentre la concezione del corpo cambia nel corso del tempo a causa delle mode, il linguaggio riferito alla mente rimane identico in cento anni…


G.R. A proposito del passato, mi risulta che sei un appassionato collezionista di oggetti, dischi, libri, abbigliamento degli anni ‘60 e ‘70, cos’è che ti affascina di quel periodo storico?

L.C. Sono un uomo estremamente legato al passato e la mia età dorata è stata quella della primissima infanzia, negli anni a cavallo fra i ’60 e i ’70. Tutte le suggestioni che posso conservare e ricordare di quel periodo rappresentano un bagaglio prezioso ed una incredibile fonte di stimolo. I miei modelli allora erano i ragazzi con i capelli lunghi e i basettoni, così, quando mi sono spuntati i primi peletti sulla faccia, mi dipingevo le basette, che ancora non avevo, con la penna, pensando che nessuno se ne accorgesse, invece tutti mi dicevano: “ma dove ti va’?”
Nonostante io senta di appartenere a quel mondo, sia dal punto di vista musicale che della moda e delle acconciature, quando concepisco un lavoro spero di cogliere le urgenze della mia contemporaneità, pur sentendomi sempre in debito verso quello che per me è uno spazio senza tempo…


G.R. Grazie, Luca…

L.C. Grazie a te. Se permetti vorrei salutarti con un’altra definizione che ho dato di me stesso: “Sono una persona superficiale, sì, ma fino in fondo”…

Intervista di Giulia Ripandelli




Luca Clabot
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E-mail: lucaclabot@libero.it